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Giacomo Crivellaro | Psicologo Psicoterapeuta
Terapia Breve Strategica e Ipnosi
Firenze, Parma e Montevarchi (Valdarno)

Il mio spirito è stato a lungo al di là del mare, e ora questo mio corpo se ne andrà laggiù.

Luigi IX di Francia

Immagine sbalorditiva della supposta supremazia illuministica della ragione, i battaglioni del 1700 avanzavano compatti sotto il fuoco dei cannoni e dei moschetti nemici. Gli eserciti del tempo erano organizzati sulla base delle metafore del tempo: puntavano a diventare perfette macchine che, nelle mani esperte dei generali, come enormi ragni spostassero i loro arti sul campo di battaglia. Per fare questo, però, era necessario estirpare le passioni umane da quei cuori che, contrariamente ad ogni loro più radicato istinto, dovevano pararsi di fronte al nemico. E proprio a questo serviva l’addestramento, il cui punto d’inizio era scandito dal ritmo cadenzato del passo marziale. Inventato proprio in quegli anni, doveva servire a far muovere i battaglioni in sincrono, come un sol uomo, strumenti incoscienti nelle mani degli strateghi.

 

In questi casi il rifiuto del corpo, o di alcune sue caratteristiche, si declina come un rifiuto delle sue tendenze più arcaiche, delle sue passioni, o delle sue risposte più naturali, come l’istinto di sopravvivenza.  Non è facile calarsi nei panni di quei soldati che vedevano cadere il camerata a fianco, e poi ancora quello davanti a loro…la compagnia o il reggimento, scavati come da uno scalpello dalle palle di cannone…il frastuono, le urla, la puzza di bruciato…. e ancora, avanzavano. Non sappiamo se, così abituati a sopprimere il viscerale impulso alla fuga smettessero persino di sentirlo oppure se esso rimaneva, represso, per poi esplodere quando un esercito, ormai provato, cedeva infine al panico e alla rotta. Ma così era inteso il soldato: un uomo senza sentimenti nè emozioni, che piccolo ingranaggio dentro meccanismi concentrici sempre più grandi, poteva grazie alla sua auspicata impassibilità, diventare il perfetto strumento nelle mani dei generali dell’Illuminismo, in grado (questa era la speranza) di manovrare le truppe come le estremità di una enorme marionetta.

 

Con le parole di Alessandro Barbero (2003)

L’enfasi sull’addestramento ebbe l’effetto di trasformare le unità militari in meccanismi disumanizzati, in cui la massima enfasi era posta sull’apprendimento forzato di movimenti automatici.

 

Tale concezione si protrasse in Italia fin dopo Caporetto: la disastrosa sconfitta vide entrare in crisi l’idea del Capo di Stato Maggiore Cadorna, di uomini-esecutori pronti a perire, a centinaia di migliaia, falciati dalle mitragliatrici o dall’artiglieria (Breccia, 2015).  E non è un caso se Montanelli (1974) ci parla dell’incredibile cecità di una visione che identificava il soldato con il robot, esecutore privato di intenzioni e sensazioni, lasciato solo con la sua inderogabile volontà di obbedire, e morire. Solzenicyn avrebbe, nel suo libro Agosto 1914, utilizzato la metafora della falciatura del grano: le spighe, a mazzi, cadono mozzate, lasciando dietro di sè la punta solitaria delle poche compagne scampate.

Ma in Occidente la sottomissione del corpo ha origini ancora più antiche, se è vero che, come accadeva nel Cristianesimo medioevale e non solo, il corpo doveva essere mortificato per permettere l’elevazione spirituale. Le pratiche ascetiche del tempo includevano lunghi digiuni, prolungati ritiri di preghiera e isolamento, oltre naturalmente all’astensione da ogni attività sessuale.

 

La scienza dai suoi albori ha invece utilizzato la macchina come utile metafora per comprendere il mondo. Già nel 1600 l’invenzione dei primi orologi stimolò l’immaginazione degli uomini del tempo: che perfezione! Che matematica e implacabile precisione negli incastri, ed il tempo scandito da un oggetto che finalmente trascendeva la percezione umana, così soggetta alle sue passeggere passioni! E si cominciò a chiedersi se, dopotutto, l’orologio non potesse essere un buon modo di rappresentarsi l’universo, retto da regole inflessibili come le lancette dei secondi o dei minuti (Rossi, 1962).

Anche il 1800 ebbe la sua macchina fantascientifica: la locomotiva. Con la potenza della sua energia, però imbavagliata e convogliata in un accurato sistema di trasmissione del moto, i cui controlli convergevano sulla cabina di comando, di cui un uomo poteva dirigerne gli effetti.E quale migliore rappresentazione dell’uomo padrone della sua ragione e delle sue azioni, oltre che dei freni, della leva di inversione, e della regolazione della velocità?

Nel 1900 il posto dell’orologio e della locomotiva venne preso dal computer, puntualmente glorificato come modello ultimo e definitivo dell’attività mentale. La mente come un computer, il gergo non a caso utilizzato dalla PNL, che in quanto programmazione presuppone un uomo dietro lo schermo, il programmatore che in questo caso è intenzionale controllore (capotreno?) di sè stesso. E neurolinguistica, cioè come fare girare il nostro neuro (l’hardware) attraverso la linguistica (il software).

E ci chiediamo quali e quanti echi di queste moderne/antiche concezioni possiamo ritrovare nel transumanesimo, movimento che propugna il superamento dei limiti corporei tramite l’utilizzo di protesi tecnologiche (O’ Connel, 2018). Il corpo viene qui rifiutato in quanto antiquato, migliorabile, o superabile. In questo modo viene vissuto da coloro, interni al movimento che, tramite previ accordi, hanno deciso di congelare il proprio nell’azoto liquido subito dopo la morte, in attesa di un futuro in cui le innovazioni tecnologiche permetteranno la migrazione della personalità dal sistema nervoso ad una macchina (un computer) in grado di mantenerne intatte le abilità, o ampliandole, persino.

 

Ma ancora più a monte, nel transumanesimo troviamo ancora un’idea, che incredibilmente ricorda alla lontana quella di alcune concezioni più antiche: quella che siano le nostre capacità mentali a renderci umani, non il nostro corpo, che ne sarebbe solo il tramite, lo strumento attuativo, come nei moderni computer l’hardware permette l’utilizzo dei software. E ancora, il corpo viene escluso dalla nostra umanità, per divenirne un’appendice accessoria, anche se utile.

 

Il rifiuto del corpo prende qui la forma della ribellione per i suoi limiti: del resto le conquiste tecnologiche suggeriscono un futuro, oltre che un presente, in cui il corpo possa essere modellato, modificato (non vorremmo dire stravolto) in modi sempre diversi. Il corpo come inaccettabile contrazione di una libertà individuale spinta all’estremo, libertà di andare oltre, di spingerci al di là nonostante noi stessi, di liberarci da ciò che ci frena, fosse anche parte di ciò che siamo.

In netta contratendenza rispetto a quanto sino a qui esposto, Nardone e Bartoli (2019) specificano chiaramente che in ogni scienza della performance, i tentativi atti a migliorare i risultati devono condividere un approccio ecologico, tenere cioè in grande considerazione il sistema complesso con cui hanno a che fare. Muoversi altrimenti, cioè incuranti dell’equilibrio personale e relazionale della persona in questione, puntare ad una migliore performance no matter what, rischia di diventare molto pericoloso. Segnaliamo quindi tale decisa presa di posizione:

E’ un punto che va sottolineato con forza: una moderna scienza della performance deve basarsi anche su un’etica della prestazione, per esempio rifiutando il ricorso a sostanze o a pratiche nocive per la salute mentale o fisica dell’atleta. Così alla visione “romantica e decadente” del genio come soggetto squilibrato o sofferente si sostituisce una prospettiva che considera il grande performer come una persona sana ed equilibrata che, in virtù di un talento coltivato attraverso l’esercizio reiterato e una conoscenza elevata, si spinge oltre i limiti fissati in precedenza per il proprio campo.

E ancora:

Se il livello della performance e la vita personale non sono in equilibrio, si va incontro ad un’inesorabile caduta, sul piano sia privato che professionale.

 

Al termine di questa veloce carrellata di alcuni dei modi in cui l’uomo, nella tensione a oltrepassarsi, finisce per negare sè stesso, non potremmo essere più d’accordo.

 

 

 

Riferimenti bibliografici

Barbero, A. (2003). La guerra in Europa dal Rinascimento a Napoleone. Carocci.

Breccia, G. (2015). 1915: l’Italia va in trincea. Bologna: Il Mulino.

Montanelli, I. (1974). L’Italia di Giolitti: 1900-1920. Milano: Rizzoli.

Nardone, G., Bartoli, S. (2019). Oltre sè stessi. Scienza e arte della performance. Firenze: Ponte alle Grazie.

O’ Connel, M. (2018). Essere una macchina. Milano: Adelphi.

Rossi, P. (1962). I filosofi e le macchine 1400-1700. Milano: Feltrinelli.

Solzenicyn, F. (1971). Agosto 1914. Milano: Mondadori.



Giacomo Crivellaro; Psicoterapia Breve Strategica e Ipnosi a Firenze, Parma e Montevarchi (Valdarno)
Psicologo Psicoterapeuta a Firenze, Parma e Montevarchi (Valdarno)
Sono Psicologo Psicoterapeuta. Diverse esperienze lavorative in alcuni ambiti della Salute Mentale mi hanno portato ad approfondire la Terapia Breve Strategica, approccio che considero il migliore, in ambito psicoterapeutico e non solo. Sono un curioso impenitente, un critico impietoso (anche verso me stesso, ahimè!) e un lettore accanito. Ricevo come Psicologo Psicoterapeuta libero professionista nei miei studi di Firenze, di Parma e a Montevarchi (AR), dove collaboro con il Centro ABA e Psicoterapia Valdarno della Associazione Vento a Favore, di cui sono socio fondatore. Sono Psicoterapeuta Ufficiale e Ricercatore del Centro di Terapia strategica di Arezzo.


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